Il temutissimo “Trezzetto” lionese
“Qua ne cacciano lo trezzetto”, usavano dire i nostri nonni se gli capitava di trovarsi in una di quelle situazioni che la gente coglie al volo per ridere alle spalle di qualcuno.
Il temutissimo “trezzetto” era uno sfottò in versi, dedicato a una persona o a una categoria di persone: quattro versi di undici sillabe (ma se ne scappava una in più o in meno nessuno ci faceva caso), rimati “a orecchio”. Il termine “trezzetto” viene da “ ’ntrezzà”, intrecciare; anche in italiano si usa l’espressione “intrecciar rime”. Era un genere di satira un po’ grossolano, opera di autori spesso illetterati. Ma aveva anche un fratello istruito, che esiste ancora e si chiama “epigramma”; un fratello che vanta origini antichissime (greco-romane, addirittura) e si può trovare in tutte le migliori letterature occidentali.
Il nostro “trezzetto” però non frequentava i salotti buoni, dove del resto non sarebbe stato ammesso. Preferiva le piazze e le strade di paese, e un’occasione particolare: il carnevale. I più anziani ricordano di aver sentito dire che che un tempo (sicuramente nell’Ottocento, ma probabilmente anche prima) a Lioni durante il carnevale si svolgevano dei veri e propri tornei di “trezzetto”, animati dalle rivalità tra i diversi rioni del paese. I “trezzettisti” più bravi, in rappresentanza dei rioni di appartenenza, spalleggiati da vivaci tifoserie, si ritrovavano in piazza e liberavano la loro vena “poetica”, con licenza di prendere per i fondelli quelli del campo avverso. Alcuni “trezzetti” erano preparati in anticipo, altri venivano improvvisati sul momento in risposta alle frecciate degli avversari; i più divertenti entravano a far parte di un repertorio al quale attingevano poi negli anni successivi le “mašcarate”, ed è per questa via che sono arrivati fino a noi.
I testi che pubblichiamo appartengono a un periodo che va dalla metà dell’Ottocento alla Grande Guerra (lo si si ricava da alcuni riferimenti interni che evidenziamo nelle note). Certi passaggi rimangono per noi oscuri, perché alludono a fatti o situazioni il cui ricordo si è perduto, oppure contengono termini che sono usciti dall’uso.
Ma, al di là dei riferimenti specifici, c’è nei “trezzetti” lionesi un aspetto di fondo che va colto, ed è ciò che essi ci dicono sulla società che li ha prodotti: una società preindustriale, profondamente legata alla terra; una società che doveva talvolta combattere con la fame, e tuttavia conservava il gusto di autorappresentarsi in modo ironico.
L’introduzione e le note sono di Angelo Colantuono.
I testi qui riportati sono stati raccolti e trascritti da Fausta Palmieri, Gerardo Alifano, Rocco Rosamilia, Nicola Garofalo, Salvatore D’Andrea.
Raccolta di “trezzetti” lionesi:
Auanno carnovale è stato muscio
Maccaruni non se ne so’ fatti
Chiangìti, figli mii, chiangìti tutti
C’a Chiacchiaređđa l’è morta la gatta
Questo è il“trezzetto” più conosciuto. Veniva recitato abitualmente come formula di presentazione dalle “mašcarate”.
Che bolìti fà vui ucchelisi
Iati facenno sempe “pane, pane”
Tanno v’abbušcati li tornisi
Quanno iati a l’Òfeto a ‘ncappà rane
“Li ucchelìsi” (lo diciamo a beneficio dei lettori più giovani) erano gli abitanti de “lo Ùcchelo”, uno dei rioni del paese.
Levateve, levateve da ‘nanti
lassati passà la banda de lo Sturno
Rocco de Vierno è lo capo banda
E’ ghiuto a piglià li muorti a l’ato munno
Si raccontava che Rocco de Vierno per scommessa era entrato di notte nel cimitero.
Tu chi vai ‘ncimma a ‘ssa batessa
E io chi vavo scàozo pe’ natura
T’avissa crede ca Rocco de Vierno è fessa
Quisso è buono pe’ te fà paura
Non è chiaro cosa fosse la “batessa” . Il contesto sembra far riferimento a un mezzo di trasporto o a un un tipo di calzatura. Questo è l’unico “trezzetto”, per così dire, ” firmato”.
Voglio iestomane a la malora
Dice ca re lèone stanno care
Simo arreddutti co’ ‘na mescetora
Iamo a l’acqua dint’a la callara
Non ce iati a lèone a la Cupa
Ca nce so’ li cani arrabbiati
Accorto ca non ve mangiano li lupi
Comm’a lo ciuccio de Rocco d’ Addirato
Lo sapiti a ‘Ngiolino de Taccolecchia
Ìa uatto uatto appriess’a ‘na cornacchia
La volìa accide co’ ‘na vrecchia
Ma se feccao dint’a la vrachetta
Gioanno è ‘no piécoro sparuto
Cornuto volontario e mansueto
A bote vole fane lo saputo
Coccheduno li šcascia re corne co’ ‘na preta
Angelo de Savino lo sapiti
Da Teora vene e da ‘na bona razza
Li conzimàti la terra e non ve n’addonati
E iđđo face gruosso lo casazzo
Il senso sembra essere questo: la gente aveva l’abitudine di andare a fare i bisogni nel campo di Angelo de Savino (Rosamilia), e così finiva per concimarlo a tutto vantaggio del proprietario.
Matalena è ‘na figliola pretenziosa
Da la mamma vole pe’ forza li guanti
Aggia scanagliàne a li parienti
Si è guagliotta de portà li guanti
Seguiranno altri Trezzetti…